LOTTA DI CLASSE A SAN FRANCISCO

di Chris Carlsson

Ristoranti di grido, boutique di abbigliamento e calzature grandi firme, esposizioni di arredamento di lusso e gallerie d’arte esclusive affollano oggi i quartieri di San Francisco un tempo conosciuti per impianti manifatturieri, lavanderie industriali, birrifici e depositi ferroviari. Centinaia di fabbriche e magazzini sono stati trasformati in loft oppure demoliti e sostituiti da palazzine, alcune battezzate ironicamente «Loft della Fonderia» oppure «Loft del Mercato dei fiori», mentre altre ancora si fregiano di vaghe denominazioni come Nema, Venn, Argenta e Linea. I prezzi superano di molto le possibilità della maggior parte di coloro che vivono a San Francisco da più di cinque anni, che si tratti degli affitti, che sfiorano i 2 mila dollari al mese per i monolocali, o delle vendite, che toccano il milione di dollari ad abitazione.

San Francisco è come Manhattan, ed entrambi rappresentano gli esempi estremi della speculazione immobiliare e dell’inflazione dei prezzi scaturite dalle politiche sociali e fiscali introdotte dal governo. Deciso a scongiurare una recessione globale catastrofica sulla scia della crisi finanziaria del 2008, il governo americano ha travasato liquidità nelle istituzioni finanziarie, e questa liquidità deve necessariamente trovare la strada per rientrare nell’economia. Anziché investire nella produzione industriale, gran parte di quel fiume di denaro si è riversato nei beni già esistenti, primo tra tutti il settore immobiliare. Di conseguenza abbiamo assistito a una rapida accelerazione nel divario sociale, non solo negli Stati Uniti, ma nelle metropoli globali dal Brasile alla Cina, dall’Italia all’India; e le città riflettono sempre di più questo nuovo assetto, dando origine a nuclei residenziali esclusivi e sfarzosi circondati da vasti agglomerati fatiscenti, in preda alla povertà e alla paura.

La maggior parte degli abitanti di lunga data di San Francisco sono rimasti storditi dall’afflusso costante di nuove ricchezze, ma per alcuni di noi, residenti in città da decenni, si tratta dell’ennesimo episodio — per certi versi il peggiore — del processo di «gentrificazione», che ha avuto inizio negli anni Settanta del secolo scorso. Per tutto il Ventesimo Secolo, San Francisco ha attirato successive ondate di nuovi arrivati, desiderosi di sottrarsi ai vincoli della classe media americana, vuoi per usufruire della maggior disinvoltura nei comportamenti sessuali che caratterizzavano la città del ponte, vuoi per apportare il proprio contributo creativo all’ambiente musicale e letterario, oppure ancora per trovare un rifugio politico dall’isteria anticomunista predominante negli anni Quaranta e Cinquanta.

Entro la metà degli anni Settanta San Francisco aveva demolito due interi quartieri, il distretto Fillmore, abitato da neri e giapponesi, e la parte sud del Mercato, la zona malfamata dove si erano ritirati a vivere i lavoratori portuali, ormai pensionati, che avevano visto i grandi scioperi degli anni Trenta. Da tempo immemorabile il distretto Mission era il quartiere delle tute blu, affollato da irlandesi, tedeschi e italiani, ma con un numero crescente di nuovi arrivati dal Centro America, che si insediavano in questi luoghi a mano a mano che la «fuga dei bianchi», tra gli anni Cinquanta e Sessanta, sospingeva parte della popolazione verso altri sobborghi e periferie della città. Nel 1970, il distretto Mission aveva già acquisito una forte identità messicana, pur restando ancora in larga misura multietnico, attorniato da palazzoni popolari, mentre le sue strade residenziali erano fiancheggiate da case ed edifici dell’Ottocento, trascurati e ormai cadenti, in vendita a prezzi stracciati.

Con l’arrivo di nuovi impiegati e artisti gli affitti ricominciarono a salire. La gentrificazione di Mission era appena cominciata, e si era ancora nel 1980. Il fenomeno si protrasse nei decenni successivi, Ottanta e Novanta. I bar e i caffè delle lesbiche poco a poco furono chiusi, e così pure le librerie, lasciando il posto ad attività commerciali più costose. Nella frenesia immobiliare che portò al collasso un’infinità di istituti di credito nel 1987, i prezzi schizzarono verso l’alto. Una breve tendenza al ribasso fu rimpiazzata da una nuova volata dei prezzi verso la metà degli anni Novanta, alimentata da due nuovi fattori, il «multimediale interattivo» (precursore della bolla informatica degli anni 1998-2000) e il progetto di un parco delle biotecnologie.

Nel frattempo, sempre più urbanisti, giovani famiglie e altri ancora stavano scoprendo Mission come il quartiere più pianeggiante, soleggiato e diversificato di San Francisco, per molti una combinazione vincente. Con l’inizio del nuovo millennio, e con l’esplosione dell’informatica, gli affitti e i prezzi degli immobili in questo quartiere erano già decollati. Una rivolta organizzata dagli attivisti del diritto alla casa, artisti, comitati degli inquilini e immigrati messicani è esplosa nelle piazze con manifestazioni e occupazioni ed è riuscita a galvanizzare l’attenzione dei politici cittadini in vista delle elezioni. I nuovi rappresentanti eletti hanno tirato il freno sulla speculazione immobiliare selvaggia e invitato un gran numero di attivisti a dare il loro contributo per ridisegnare l’assetto urbanistico dei quartieri est di San Francisco.

Quando il nuovo regolamento è entrato in funzione intorno al 2005, la bolla immobiliare e creditizia era al culmine e sui tavoli dell’amministrazione comunale piovevano domande per ottenere permessi di costruzione per decine di nuovi immobili. Al crollo del 2008 è seguita una pausa di un paio di anni, ma dal 2010 il forte impulso del settore tecnologico ha nuovamente sospinto San Francisco sull’orlo della crisi sociale. Certo, i cosiddetti «bus di Google» (che trasportano i dipendenti dalle zone residenziali agli uffici) sono semplicemente la punta dell’iceberg che comprende una dozzina di aziende tecnologiche, da Apple e Yahoo, da Genentech a eBay. A San Francisco, nell’area dei vecchi depositi ferroviari abbandonati nel 2000 sta sorgendo a tutta velocità Mission Bay, una «nuova città dentro la città», che aspira a diventare il principale polo di attrazione delle imprese mediche e di biotecnologie, raccolte attorno al campus biomedico dell’Università della California. Le aziende hightech tutt’attorno alla zona della Baia hanno disperatamente bisogno di alloggi per la loro crescente forza lavoro e San Francisco, una città dai confini ben definiti ma popolata da un’infinità di nuovi imprenditori e speculatori — nel 2014 proprio come nel 1849, e in ogni anno successivo da allora —, si ritrova al centro dell’attuale corsa all’acquisto. A tutti noi, che ricordiamo così chiaramente le trasformazioni sociali e culturali di questa città, non sfugge certo l’ironia che i primi residenti costretti a sloggiare da questa nuova valanga di soldi che si sta abbattendo su San Francisco saremo proprio noi.
(Traduzione di Rita Baldassarre)

Chris Carlsson

dal Corriere della sera La lettura 22 dicembre 2013

Chris Carlsson è una delle figure più innovative e interessanti del movimento americano. È internazionalmente noto come il fondatore della Critical Mass, una pratica che in pochi anni da S. Francisco si è poi diffusa in oltre 400 città del mondo. È stato anche il fondatore della rivista californiana “Processed World”, che nei primi anni Ottanta aveva scandagliato il lato oscuro della Silicon Valley, dando attenzione alle vite reali dei lavoratori utilizzati nella nascente industria informatica. Una antologia della rivista è stata pubblicata anche in Italia con il titolo di Ribellione nella Silicon Valley (a cura di Raf Valvola Scelsi, ShaKe 1997). Carlsson ha curato altri tre libri. Nel recente passato è stato anche presidente di CounterPULSE, una organizzazione di artisti e media attivisti. (da www.shake.it)

nowutopia

 

REPORTAGE GLI IMPIEGATI DI AZIENDE COME GOOGLE E FACEBOOK COLONIZZANO INTERE AREE DELLA CITTÀ, GLI SPECULATORI CAVALCANO IL TREND, MONTA LA PROTESTA

Tecnologia, dollari&sfratti: lotta di classe a San Francisco

Dave Eggers: il problema è il modello di business di Silicon Valley

Disposti in fila orizzontale, abiti casual, occhi sul cellulare. Non hanno più di 30 anni e quando arriva il bus che li porta a Mountain View, quartier generale di Google, salgono uno alla volta senza staccare lo sguardo dallo smartphone. Un «buongiorno» svogliato all’autista e subito dentro. È l’esercito di ingegneri, programmatori, impiegati che hanno scelto di vivere a San Francisco invece che in Silicon Valley. Per loro Google — d’accordo con il Comune — ha messo a disposizione bus dotati di connessione wifi e vetri scuri che utilizzano il circuito di fermate dei mezzi pubblici. Non esiste solo il G-Bus: anche Apple, Yahoo! e Facebook hanno i loro trasporti privati. Nati contro l’abuso di automobili (un modo ecologico per gestire il flusso di forza lavoro che ogni giorno si sposta nella Valle), i pullman sono diventati simbolo di una lotta di classe che trova in San Francisco il suo laboratorio.

In città ci sono 1.892 startup, che occupano il 30% degli edifici urbani. Hanno creato negli ultimi tre anni 23.500 posti di lavoro, facendo del settore hi-tech, cresciuto del 58% dal 2010 al 2012, il leader indiscusso del mercato del lavoro della Baia. A differenza dei loro padri, i nuovi techie — come vengono definiti con una punta di disprezzo — non vogliono vivere nelle gabbie dorate della Silicon Valley: perché scegliere una villetta nel deserto sociale di Cupertino quando si può avere un appartamento nel centro di una delle città più vibranti d’America? Joshua Cohen, docente del programma «Liberation Technology» dell’università di Stanford e collaboratore di Apple, sottolinea la differenza con l’era Jobs: «I lavoratori legati alla produzione “materiale” di tecnologia avevano età e bisogni diversi tra loro, la nuova generazione è molto giovane, ha tanto denaro a disposizione e, fuori dagli orari di lavoro, vuole solo divertirsi».

Con il termine gentrification si intende la trasformazione del tessuto culturale ed economico di un quartiere che segue l’arrivo di residenti benestanti. È un processo quasi inevitabile nello sviluppo urbano e spesso utile per «bonificare» aree altrimenti poco sicure o degradate. Nel caso di San Francisco, però, la «gentrificazione» sta alterando il dna di una città-simbolo di sottoculture differenti per fare posto a condomini, bar e negozi funzionali alla nuova working class. Chris Carlsson, fondatore del movimento Critical Mass, vive nel Mission District dalla fine degli anni Novanta in un appartamento su due piani pieno di disegni e fotografie. Colloca l’inizio del processo alla fine degli anni Novanta con il boom delle cosiddette compagnie dotcom. L’attivista ricorda i cartelli esposti sulle vetrine dei negozi del quartiere rivolti ai «nuovi ricchi», che alternavano i benvenuti agli inviti a restare fuori dalla città. Come è noto, la bolla esplose, e — afferma l’attivista —«per un po’ la città pensò di aver archiviato i colonizzatori». A distanza di dieci anni, Carlsson è uno delle migliaia di cittadini che rischia di essere sfrattato da un giorno all’altro per fare posto a loro.

A San Francisco è attivo il rent control: gli affitti sono bloccati per tutelare le fasce più deboli e conservare le comunità nei luoghi d’origine. Nel 1986 lo Stato della California ha approvato però una legge conosciuta come «Ellis Act» a tutela dei proprietari di casa, che li autorizza a disdire il contratto per uscire dal mercato e riprendersi la propria abitazione. Dall’anno di approvazione della legge al 1996 gli sfratti autorizzati dall’Ellis Act sono stati 29. Il numero è salito a 503 nel 1999 in corrispondenza della febbre da internet economy per poi diminuire nuovamente con lo scoppio della bolla. Negli ultimi dieci anni solo nel centro urbano si è registrato un aumento del 220% delle richieste di Ellis Act, con una media di due condomini sfrattati al mese.

«La legge è diventata il più importante strumento nelle mani della speculazione immobiliare che sta violentando la città», spiega l’artista Leslie Dreyer dell’associazione «Heart of the city». La incontriamo nella sede del SF Tenant’s Union nel cuore di Mission, uno dei quartieri più colpiti o — come lo definisce Susie Cagle, illustratrice di Oakland — il «ground zero del conflitto sociale». La stanza è piena di uomini e donne, molti di origine latinoamericana, che hanno dovuto lasciare le loro case e, nel migliore dei casi, si sono trasferiti nell’estrema periferia di San Francisco. Sulla parete spiccano le cartine dell’«Anti-Eviction Mapping Project» che ripercorre tutti gli sfratti avvenuti in città negli ultimi 27 anni. Tra di loro c’è Martina Ayala, educatrice scolastica e artista molto apprezzata in città, al punto che, ironia della sorte, è stata contattata proprio da Google per realizzare dipinti sui bus. Il proprietario del suo immobile l’ha buttata fuori in sei mesi affermando di «voler uscire dal mercato degli affitti» e, subito dopo, ha venduto l’appartamento a un’agenzia che cambierà la destinazione d’uso del palazzo per affittare gli appartamenti a prezzi esorbitanti. «Il costo medio di un bilocale a San Francisco — spiega Leslie — è di 3500 dollari. Chi, se non i ricchi ingegneri, possono permettersi una spesa mensile del genere?». Non è un caso se su Craigslist, il popolare sito di annunci, le proposte immobiliari diano come informazione la distanza dalle fermate degli autobus privati per la Silicon Valley.

La zona che da Mid Market — quartiere dove si trova la sede di Twitter, la prima grande azienda che ha scelto di stare in città — arriva fino a Mission è una mostra di cartelli immobiliari che invitano i nuovi acquirenti a «scoprire le meraviglie di Downtown». Quello che era un tempo il paradiso di hippie, punk, artisti e scrittori è diventato — per usare la definizione della scrittrice Rebecca Solnit — «il dormitorio della Silicon Valley». È successo con la complicità del sindaco, Edwin Lee, che — ricorda ancora Martina Ayala —«incontra ogni settimana i rappresentanti del mondo tecnologico ma non trova il tempo per le famiglie». D’altronde è grazie a Twitter, Facebook, Yahoo! se la disoccupazione in città è scesa al 5,3%, facendo di «Frisco» una delle metropoli con meno disoccupati degli Stati Uniti.

Non c’è da sorprendersi che il sindaco abbia permesso alle imprese che concentrano in pochi km buona parte della ricchezza del pianeta di utilizzare percorsi e fermate dei mezzi pubblici. E non importa che rallentino i viaggi dei pullman ordinari o mandino in tilt le fermate di mattina, «sono il simbolo di come potrebbe essere una città se a gestirla ci fossero le compagnie hi-tech», spiega Erin McElroy, organizzatrice della protesta della scorsa settimana contro il G-Bus.

Quelle per il trasporto urbano non sono le uniche agevolazioni ad hoc per le aziende: il privilegio numero uno è la tax break, una disposizione che prevede la riduzione drastica delle tasse in cambio di un «ritorno» per la comunità locale. In base all’accordo, le imprese che ne beneficiano devono restituire un ammontare equivalente (nel caso di Twitter la cifra annuale è di 30 milioni di dollari) attraverso donazioni, volontariato, assistenza tecnica gratuita alle comunità locali, donazione di pc alle scuole e così via. «Nessuno vigila davvero sull’accordo — spiega Justine Sharrock, giornalista freelance di Oakland — e spesso l’operato si traduce in briciole. Tutto questo non fa che aumentare il divario tra le aziende e il resto della città». L’atteggiamento arrogante di alcuni techie non aiuta il clima. Ha fatto discutere un post pubblicato su Facebook da Grep Gopman, in cui il fondatore di AngelHack ha denunciato una città lacerata — con un’area per la working class e una per i «degenerati» —, lamentando la troppa vicinanza tra le due zone.

La retorica dickensiana «delle due città» — quella di chi ha molto e quella di chi non ha quasi nulla — ha portato Bill De Blasio a vincere le elezioni a sindaco di New York e qui ha trovato la sua versione californiana. Se l’élite economica di Manhattan è una variegata comunità di ricchi, nella città della Baia è rappresentata dal compatto, giovane e bianco-asiatico esercito di internet. «Si è creata una frattura rischiosa tra loro e noi», racconta Dan Weiss, musicista degli Yellow Dress (della band fa parte anche una dipendente Google) e collaboratore di McSweeney’s, la casa editrice fondata da Dave Eggers nel 1998 e diventata simbolo di un modo indipendente di fare cultura coinvolgendo la comunità locale. Il nuovo romanzo di Eggers The Circle è un atto di accusa contro la Silicon Valley descritta come un Grande Fratello. Durante la festa per i 15 anni della casa editrice, mentreWeiss suona sul palco, lo scrittore appare più morbido nel giudicare «l’invasione cittadina»: «Twitter ha riqualificato un palazzo abbandonato — spiega a “la Lettura” sorseggiando un Pinot nero — e ha rivitalizzato un’area considerata morta. Il problema è il modello di business della Silicon Valley, non gli individui». Anche il fronte tech inizia a mostrare fastidio per la situazione: «È facile prendersela con i nerd. Perché invece — ci dice alla fermata dell’autobus un dipendente Google — gli attivisti non presidiano gli uffici dei banchieri o degli speculatori?». Tra i dipendenti di Twitter circolano email che esprimono il disagio di passare per carnefici: «Sono anche loro vittime di un sistema iperproduttivo che omologa verso la ricerca spasmodica del profitto, invece che esaltare le differenze», spiega Fred Turner, docente di Comunicazione a Stanford. In fondo, i giovani programmatori del 2013 in fila alla fermata non sono così lontani dai minatori prelevati per andare a cercare oro nell’Ottocento.

L’ultimo ordine di sfratto riguarda un centro che ospita giovani senzatetto, ad Haight Ashbury, cuore hippie della città negli anni Sessanta : dovrà chiudere entro il 25 dicembre, il giorno di Natale. A San Francisco ci sono quasi mille giovanissimi homeless e il problema non riguarda solo la città: nel minuscolo pezzo di terra dove hanno sede alcune delle aziende più ricche del mondo esiste anche il numero più alto di clochard della California. Il campo più grande, noto come «The Jungle» (la giungla), si trova a San Jose, a pochi minuti dal quartier generale di Facebook. Al suo interno, tra immondizia, tende di fortuna e cartoni vivono ottanta persone. Tre a novembre sono morte per il freddo. José, idraulico di origine messicane, considerato il leader dell’accampamento, ci racconta che il numero di abitanti è raddoppiato nell’ultimo anno: «C’è di tutto: ex impiegati, commercianti, prostitute». A pochi metri dall’entrata del campo è in vendita una casetta con giardino per 200 mila dollari. Alla domanda su «The Jungle», la proprietaria infastidita risponde: «Il giardino non confina con il campo, l’unico problema può essere la vista della spazzatura ma è ben nascosta».

Secondo il pastore Scott J.Wagers che, con il gruppo della sua parrocchia di San Jose, si reca ogni settimana a fare assistenza agli homeless, esiste una connessione diretta tra la ricchezza dei colossi del web e la crescente povertà del mondo oltre la tecnologia: «Mangiano tutto e restituiscono poco», spiega mentre distribuisce coperte nel parcheggio davanti al campo. Ha organizzato per il giorno dopo una manifestazione a Cupertino, davanti alla sede di Apple, dove il pastore e la sua comunità sono l’unica nota di colore tra gli impiegati nevrotici. Le piccole chiese della Silicon Valley — racconta — guidano la campagna di sensibilizzazione contro l’oligarchia digitale. I loro siti internet contengono più informazioni delle riviste specializzate. Sono convinti che presto questo modello finirà. Sono ottimisti. Come Jose, che si accontenterebbe anche di una connessione internet offerta da Facebook.

Serena Danna

dal Corriere della sera La lettura 22 dicembre 2013

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