LA GRANDE ALLUVIONE

Regali di Natale 2013: la grande alluvione
di Franco Turigliatto

Puntuale come sempre alla vigilia di Natale è arrivata la legge di stabilità, una volta definita più propriamente legge finanziaria, e che, come nella vecchia versione, contiene una miriadi di norme che non sono propriamente regali per la classe lavoratrice, i giovani, i disoccupati, cioè per la grande maggioranza delle cittadine e dei cittadini.

Quel che stupisce è che ad essere critica verso questa legge è stata proprio la Confindustria, non certo per inesistenti contenuti sociali a favore dei lavoratori, ma per l’inadeguatezza – a suo dire – delle riduzioni fiscali (il cosiddetto “cuneo fiscale”) previste per le aziende. Ad agitarsi di più avrebbero dovuto essere le organizzazioni sindacali, che, com’è noto, si sono limitate a uno sciopero simbolico di qualche ora, privo di qualsiasi efficacia e con rivendicazioni ambigue ed anche errate, frutto del testo comune firmato con la Confindustria.

Ma prima di prendere in esame i contenuti di questa legge osserviamo un poco la fotografia sociale del nostro paese, non quella fatta da qualche sociologo o sindacalista troppo radicale (per altro di questa specie ne sono rimasti pochissimi esemplari), ma attraverso i dati forniti dai padroni stessi, ossia dal Centro Studi della Confindustria.

L’analisi della Confindustria

La ricerca del Centro Studi indica: una flessione del PIL dal 2007 ad oggi del 9,1%,(con una previsione per il 2013 di un’ulteriore flessione del 1,8%); una riduzione del prodotto pro-capite, quello che meglio misura la qualità della vita, dal 1996 ad oggi dell’11,5%; una contrazione dei consumi delle famiglie dell’8%, cioè sette settimane di consumi in meno pari a una riduzione del reddito speso di 5.037 in media all’anno.

Il vicepresidente della Confindustria ha precisato che metà della flessione del 9,1% del PIL non verrà mai recuperata e sarà persistente, mentre l’altra metà sarà recuperata ma non prima del 2019.

Ancor più drammatiche le cifre del crollo (-30%) degli investimenti dal 1994 a oggi e della caduta (-24,6%) della produzione industriale.

Le conseguenze occupazionali e sociali sono chiare: una diminuzione dell’occupazione tra il 2000 ed oggi del 7,2%, con 1,8 milioni di posti di lavoro persi, tre milioni e mezzo di disoccupati, altrettante persone che non provano neppure più a cercare lavoro perché disillusi; ad essi vanno aggiunti mediamente 520.000 lavoratori in cassa integrazione (oltre un miliardo di ore di CIG nel 2013) con il reddito drasticamente ridotto, infine tre milioni di poveri in più dall’inizio della crisi. Complessivamente si viaggia tra gli 8 e 9 milioni di poveri. Così l’Italia ha perso il 12% del suo potenziale economico, che corrisponde a 200 miliardi all’anno andati in fumo.

Siamo dopo la guerra o in guerra?

E’ il bilancio di una guerra; infatti il Centro Studi confindustriale usa questo termine per caratterizzare la situazione; concetto ribadito dall’amministratore delegato della BNL-Paribas, Gallia, che afferma: “in sei anni abbiamo perso nove punti di PIL; si tratta del secondo peggior risultato nell’arco di 150 anni. E’ andata peggio solo con la seconda guerra mondiale”, che poi vira sull’ottimismo “L’Italia ha ossigeno per iniziare la risalita, perché nonostante tutto siamo la seconda manifattura europea, le famiglie non sono indebitate, e il paese è ancora ricco… ma servono subito riforme … sulla competitività per spingere rapidamente sui capitoli del lavoro e della semplificazione” (mah..).

E infine il presidente della Confindustria, Squinzi, rincara la dose: “Le famiglie hanno fatto una feroce ‘spending review’. Non c’è nessun paese dentro e fuori dell’Europa in cui le lancette dell’economia siano tornate così indietro a causa della crisi”. Forse si dimentica che Grecia, Spagna e Portogallo hanno avuto sorte anche peggiore.

Squinzi polemizza con il Presidente del Consiglio sostenendo che la manovra è insufficiente, che la recessione non è finita e che per assumere le aziende prima devono avere più lavoro e commesse e che per questo serve una diversa allocazione delle risorse e le “riforme” (parola mitica che sta per significare nuovi guai per la classe lavoratrice). In altri termini voleva una riduzione fiscale più consistente per le aziende che rappresenta.

Naturalmente gli uomini della Confindustria si dimenticano di dire che questa guerra è il prodotto del loro amato sistema capitalista e delle sue contraddizioni, che questa crisi economica e il debito, trasformato da privato a pubblico, sono usati, proprio come nelle guerre, contro il movimento delle lavoratrici e dei lavoratori per imporre una radicale modifica della distribuzione delle ricchezza dal basso verso l’alto e dei rapporti di forza tra le classi così come si sono configurati nel secondo dopoguerra. La crisi stessa è alimentata dalle violente politiche liberiste dell’austerità con il crollo dei consumi delle masse popolari e dalla volontà della borghesia di riprodurre, come un tempo, un enorme esercito industriale di riserva per ricattare e sfruttare maggiormente la forza lavoro, imponendo una generale riduzione dei salari nel continente per garantire le rendite e i profitti minacciati dalla crisi e dal possibile crollo dell’economia di carta.

E infatti la disoccupazione nel nostro paese si colloca ormai all’insostenibile livello del 12,5%, con il record storico (oltre il 41%) per i giovani. I padroni non dicono che in questa guerra stanno imponendo ritmi e condizioni di lavoro sempre più duri nei luoghi di lavoro, che moltiplicano i ricatti e ogni forma di precarietà, che i diritti fondamentali del lavoro, come l’articolo 18, la previdenza pubblica e lo stesso contratto nazionale di lavoro sono erosi da ogni parte; per non parlare infine della progressiva distruzione dello stato sociale.

Le notizie folkloristiche

In questo contesto, i giornali, costretti a riconoscere i dati sociali della crisi, presentati però sempre come prodotti oggettivi e non frutto di scelte politiche ed economiche precise, ogni tanto, con tono stupefatto, come fosse una notizia curiosa, anzi folkloristica, informano che anche nella crisi i ricchi sono diventai più ricchi e che il 10% della popolazione detiene il 45% del paese. Per rimanere nel solo ambito borsistico, senza prender in considerazione l’intero patrimonio, quelli che i giornali hanno chiamato i “paperoni” della borsa (la top ten), hanno visto la loro ricchezza borsistica crescere mediamente del 7%; solo per citarne alcuni, Del Vecchio della Luxottica, la famiglia Prada Bertelli, la famiglia Rocca, quella degli Agnelli, Berlusconi e Ferragamo…

La legge di stabilità

E’ in questo quadro che va letta la legge di stabilità (fa un po’ ridere definirla con quel nome avendo presente i dati socio-economici che abbiamo riportato) che il presidente del consiglio Letta e tanti esponenti del PD hanno magnificato come legge innovativa, una legge che, dopo anni, non taglierebbe più, ma finalmente offrirebbe qualcosa alle fasce sociali deboli.

Vediamola: la legge vale complessivamente 14,7 miliardi nel 2014: 12, 2 miliardi sono coperti da misure interne al provvedimento, cioè da entrate suppletive per far fronte alle spese previste; 2,5 miliardi sono gli interventi di spesa a deficit, nella speranza che gli interessi del debito si riducano per effetto della riduzione dello spread, liberando risorse. La legge ha invece, per il 2015 e il 2016, un effetto positivo sull’indebitamento netto, rispettivamente di 3,5 miliardi e 7,3 miliardi per effetto della riduzione degli oneri; in questi anni le coperture finanziarie per le maggiori entrate previste dalla legge salgono a 14,45 miliardi nel 2015 e a quasi 20 miliardi nel 2016.

Bisogna avere chiaro che cosa significano questi dati; la manovra il primo anno ha un effetto espansivo sull’economia, se pure molto limitato, ma avrà invece avrà un effetto deflattivo e contrattivo nei due anni successivi. La Confindustria valuta appena lo 0,2% l’effetto positivo della manovra sul PIL.

Con la legge di contabilità e finanza pubblica del 31 dicembre 2009, l’intera struttura della manovra di finanza pubblica era stata modificata sostituendo la vecchia legge finanziaria onnicomprensiva (omnibus come era stata definita) con un nuovo provvedimento molto più snello (la legge di stabilità) che non avrebbe dovuto contenere norme di carattere ordinamentale ed organizzatorio, di natura localista o microsettoriale e tanto meno misure di sostegno dell’economia, che avrebbero dovuto trovare disciplina in altri leggi.

Al di là del giudizio negativo sulla legge del 2009 che aveva la funzione di assegnare un ruolo egemonico al governo a scapito del Parlamento nella definizione delle misure economiche, le cose non sono andate così già negli anni scorsi; non perché il governo non abbia potuto mantenere il controllo grazie ai maxiemendamenti sottoposti a fiducia con cui può chiudere il dibattito parlamentare, ma perché la legge di stabilità è ridiventata un contenitore molto ampio con una pluralità di disposizioni e di materie.

Così è avvenuto quest’anno dove il testo è stato modificato più volte, viaggiando da Camera a Senato con lunghe trattative, modifiche, divisioni ed interessi specifici delle forze politiche che compongono la maggioranza, con la finalità di trovare i “giusti” compromessi capaci di garantirne la tenuta, con un maxiemendamento del governo: un solo articolo composto da 749 commi. Non un record, ma comunque un buon risultato.

In realtà molte delle norme sono del tutto imprecise, tanto che il Corriere della Sera parla di “cantieri rimasti aperti” a partire da quello della casa; inoltre interi capitoli, come il probabile nuovo condono per i capitali sfuggiti all’estero sono stati rimandati ad altro provvedimento. La confusione è notevole e un decreto legge omnibus che metteva insieme materie completamente diverse insieme al tradizionale decreto mille proroghe di fine d’anno, su cui la Camera aveva già votato la fiducia, ha dovuto interrompere il suo iter legislativo per l’opposizione del Presidente della Repubblica di fronte a una legge così apertamente contraddittoria col dettato costituzionale che prevede, per i decreti legge, l’urgenza e una unicità di materia.

Alcune misure

Per tornare alla legge di stabilità siamo di fronte a un provvedimento che non ha una centralità particolare, tanto meno misure per affrontare la disoccupazione, ma che prevede numerosi interventi di modifica e di aumento dei prelievi fiscali, tra cui anche possibili modifiche alle detrazioni fiscali, di aumento dei contributi dei lavoratori autonomi e dell’imposta da bollo sui conti correnti, la sanatoria per le concessioni demaniali e i canoni non pagati, il tetto per il cumulo pensioni-reddito, il contributo di solidarietà per i redditi sopra i 300.000 euro, ma anche una nuova stretta per i lavoratori del pubblico impiego di cui diremo più avanti e l’introduzione della mobilità obbligatoria per i lavoratori in esubero delle aziende partecipate degli Enti locali.

Si trova poi un intervento tecnico contabile per coprire il buco dell’INPS prodotto dall’incorporazione dell’Inpdap; modestissimi interventi a sostegno dei lavori socialmente utili, per gli esodati, per le borse di studio, l’estensione della social card, presentata come reddito minimo, affitti che non potranno più essere pagati in contanti, il ritorno a un solo giorno per le votazioni. Nel frattempo la web tax è stata ridotta al minimo, le norme sulla costruzione degli stadi sono state un poco contenute, ma non per questo appaiono meno devastanti, per non parlare dell’allargamento dell’ambito di applicazione della Tobin tax (è noto che finora questa disposizione ha portato ben pochi soldi) che è stata semplicemente accantonata.

Le prese in giro

L’elenco è lunghissimo, ma qui mi fermo, anche perché è invece utile sottolineare che queste modalità di intervento determinano quasi un’impressione di non impatto sociale della legge mentre in realtà il dolore sociale comparirà via via nelle sue mille pieghe.

Tanto per fare l’esempio più vistoso. Le minore entrate determinate dall’abolizione dell’IMU, (ma si pagherà comunque la mini Imu) saranno compensate con gli interessi con l’introduzione della IUC (l’imposta unica comunale) che comprenderà l’Imu (non sulla prima casa), la Tari sulla raccolta dei rifiuti e la Tasi sui servizi indivisibili che graverà non solo sui proprietari, ma anche sugli inquilini.

Per quanto riguarda la rivalutazione delle pensioni siamo praticamente al gioco delle tre carte; viene modificata la norma temporanea del decreto “Salva Italia” della fine del 2011 che prevedeva il blocco dell’indicizzazione; questa riparte, ma è parziale per i trattamenti superiori a tre volte il minimo Inps, e soprattutto il tasso di rivalutazione, fissato per il 2014, è bassissimo, l’1,2%. Gli 11,5 milioni di pensionati che disporranno dell’adeguamento al 100% della loro pensione avranno in un anno un aumento di 231,92 euro lordi! Pari a 19 euro lordi mensili. Qualche caffè in più…

Quelli che oggi dispongono di un assegno mensile di 1.600 euro lordi, nel 2016 incasseranno in meno 1.077,83 euro all’anno rispetto a quanto avrebbero avuto con le regole vigenti fino al 2011.

La grande rapina viene da lontano

Molti hanno l’impressione che questa legge, dato la sua dimensione relativa di appena 14 miliardi, sia meno drammatica delle manovre economiche degli anni passati. E’ vero, ma proprio questo spiega l’arcano, cioè che siamo dentro le alluvioni prodotte dalle manovre economiche del 2011- 2012 di dimensioni strutturali ed epocali; quelle misure non solo sono pienamente vigenti, ma sono state concepite per esercitare impatti economici e sociali crescenti nel corso degli anni, in particolare a partire dal 2014.

Il decreto legge del luglio 2011 prevedeva un intervento correttivo sui conti pubblici di 48 miliardi; il provvedimento successivo dell’agosto del 2011 determina un impatto complessivo di riduzione del debito pubblico di 60 miliardi nel corso di tre anni (contiene riduzione drastiche di risorse per le amministrazioni centrali dello stato e degli enti locali, l’aumento dell’IVA, la riduzione delle agevolazioni fiscali). Il decreto Monti di fine 2011 contiene una manovra lorda complessiva di 31 miliardi nel 2012, 33 miliardi nel 2013, 34 miliardi nel 2014, (quella netta è rispettivamente di 20 miliardi, 21 miliardi e quasi 35 miliardi). Il maggiore contributo a questa manovra proviene dalla controriforma Fornero delle pensioni, dall’IMU, dalle addizionali regionali IRPEF, dall’aumento dell’IVA, dalla riduzione dei trasferimenti agli Enti locali.

Queste manovre sono cumulative e danno la dimensione dell’enorme prelievo finanziario operato dai governi per conto della classe dominante. Per usare una metafora: c’è stata un’alluvione di enormi dimensioni, ma nel 2014 arriva una nuova immensa massa d’acqua dalle montagne lontane, mentre la pioggia continua a cadere incessantemente.

Stiamo infatti parlando delle successive controriforme delle pensioni, che hanno portato per uomini e donne, del privato e del pubblico, l’età pensionabile a 67 anni con una progressione che sarà abbastanza rapida (la controriforma Fornero ha tolto alle lavoratrici e ai lavoratori diritti pari a 3.884 miliardi nel 2013, 6.026 miliardi nel 2014, ecc.); stiamo parlando del taglio ai trasferimenti statali agli Enti locali (il contributo che le manovre 2010-2011 hanno chiesto alle autonomie locali è stimato in 15 miliardi il 2012 e in quasi 18 miliardi nel 2013) che hanno determinato il crollo e la corsa alla privatizzazione dei servizi pubblici nonché l’aumento dell’Irpef regionale e comunale; stiamo parlando dei tagli alla sanità (20 miliardi più o meno) che come ci dicono le statistiche di questi giorni ha spinto o obbligato 11% delle cittadine e dei cittadini a rinunciare alle cure mediche; stiamo parlando dei tagli alla scuola pubblica (altri 15 miliardi) mentre continua il finanziamento a quella privata; stiamo parlando delle decine di migliaia, ormai centinaia di migliaia di posti distrutti nella pubblica amministrazione e nella scuola. Tutte queste misure sono strutturali e permanenti.

Il lavoro pubblico

Il Sole 24 Ore titola un suo articolo “Conto da 12 miliardi per gli statali”: è la cifra già contabilizzata in riduzione nel bilancio pubblico al capitolo “costi del personale”. Diversi sono gli strumenti con cui si realizza questo brutale risparmio sulla pelle dei lavoratori (3,2 milioni di dipendenti che garantiscono il funzionamento di istituzioni e enti, ma soprattutto servizi pubblici e sociali fondamentali), che serve a foraggiare la rendita finanziaria. Lo strumento più importante è certamente il blocco dei contratti di lavoro, che opera dal 2010 e che oggi viene esteso anche ai dipendenti della Sanità. Anche il piccolo importo (la cosiddetta vacanza contrattuale) che viene versato alle lavoratrici e lavoratori come modesto risarcimento viene congelata al valore del 2013 dal 2014 al 2017. Questa misura ruberà ai dipendenti pubblici 560 milioni di euro nel 2015 e 820 milioni di euro nel 2016, indicando la volontà del governo e del legislatore di non procedere ad alcun rinnovo dei contratti fino a quella data.

Così dopo la pesante caduta dei salari dei lavoratori privati assistiamo a una forte riduzione (una media del 10,5%) delle retribuzioni di quelli pubblici, in particolare nella scuola. Negli ultimi 5 anni un normale impiegato degli Enti locali o della Sanità ha perso 3.000 euro lordi per i mancati aumenti; 15.000 euro lordi sono quelli persi da un dirigente di prima fascia di un ente pubblico non economico (ecc.).

Ma un’altra misura non è meno grave: l’attuale legge rafforza infatti il blocco del turn over (ad oggi già 120.000 posti di lavoro in meno) nel settore pubblico: la percentuale di nuove assunzioni rispetto al numero di coloro che lasciano il lavoro potrà essere solo del 40% nel 2015 e del 60% nel 2016. Si esplicita così l’intenzione, più volte dichiarata apertamente da esponenti politici e del padronato, di ridurre del 10% (più di 300.000) i dipendenti pubblici, sempre più attaccati in modo interessato e/o stupido da diversi soggetti, tra cui anche Grillo e il suo movimento che così facendo danno una mano dell’offensiva delle forze capitalistiche.

L’uomo della troika: il commissario straordinario alla spending review

Nella legge di stabilità si fa riferimento ai risparmi che deriveranno dalla cosiddetta spending review, cioè dalla riduzione della spesa pubblica, che diventa il pozzo di San Patrizio da cui attingere risorse. Il decreto legge 69/2013, convertito dalla legge 9 agosto 2013 n. 98 disciplina questa materia; un Commissario straordinario, nominato dal governo, è chiamato a dirigere l’attività della spending review. L’incarico è stato affidato a Carlo Cottarelli, già dirigente del Fondo Monetario, subito definito da alcuni giornali “mister Forbici” e che la pagina web del governo italiano così presenta:

“Revisionare e ridurre la spesa pubblica con l’obiettivo di eliminare gli sprechi e migliorare la qualità dei servizi resi ai cittadini. Sono i compiti affidati al nuovo Commissario straordinario per la spending review, Carlo Cottarelli, direttore del Dipartimento finanza pubblica del Fondo Monetario Internazionale.” Come dire: “una provenienza autorevole e una garanzia per la finanza”.
Il Fatto quotidiano scrive in proposito: “L’uomo della Troika scelto dal governo italiano per gestire i tagli alla spesa pubblica… ha affermato che ‘ci vorrà del tempo per raggiungere l’obiettivo ambizioso’ presentato da Fabrizio Saccomanni (il ministro dell’economia), ovvero 32 miliardi fino al 2016, facendo sapere che al momento i risparmi previsti dalla Legge di stabilità sono di zero euro per il 2014, 3,5 miliardi per il 2015 e 8,3 miliardi per il 2016, e sottolineando che bisogna quasi di triplicare questa somma per raggiungere il traguardo”.

Il compito per cui Cottarelli è pagato lautamente è un gigantesco taglio alla spesa pubblica, ai servizi e ai posti di lavoro. E infatti il primo ministro Letta, di fronte alle critiche rivolte alla finanziaria dalla Confindustria, risponde: “state tranquilli troveremo i soldi per ridurre il cuneo fiscale, le risorse arriveranno in primo luogo dalla spending review.”

Per sicurezza tuttavia il governo ha inserito al comma 430 della legge di stabilità la cosiddetta clausola di garanzia; che cosa significa? Nel caso i cui non si raggiungano gli obiettivi predeterminati di risparmio di spesa il Presidente del Consiglio dei ministri entro il 15 gennaio 2015 adotterà un decreto che disporrà variazioni delle aliquote di imposta e riduzione della misura delle agevolazioni e detrazioni fiscali in modo da assicurare comunque le entrate necessarie: esse vengono quantificate in 3 miliardi di euro per il 2015, 7 miliardi di euro per il 2016 e dieci miliardi di euro per il 2010! I lavoratori sanno che saranno cucinati in padella o direttamente nella brace.

Il cuneo fiscale

Il tema più dibattuto è stato proprio il cosiddetto cuneo fiscale, cioè la costituzione del Fondo per la riduzione della pressione fiscale sulle imprese e sul lavoro. E’ una richiesta che Confindustria e organizzazioni sindacali avevano avanzato comunemente in un testo al governo e che, secondo la Confindustria, non avrebbe trovato sufficientemente risposta della legge di stabilità, tanto che ha sviluppato una vera campagna giornalistica per denunciare che questa legge nasce troppo debole.

Ecco alcuni titoli del Sole 24 ore: “L’impegno tradito di Letta”, “Svuotato il fondo cuneo”, “Senza scelte forti si gela la fiducia”. Lapidaria una delle conclusioni dell’editorialista “dopo la richiesta di tutte le parti sociali di rafforzare la manovra con la creazione di un fondo taglia cuneo nel quale dovrebbero confluire le risorse derivanti dalla spending review e dalla lotta all’evasione il risultato è quasi una zero che s’accoppia all’altro zero attuale, quello della crescita… Se e come arriveranno… queste risorse saranno ripartite e parcellizzate su una platea vastissima di soggetti.”

Occorre ricordare che la riduzione del cuneo fiscale fu un’invenzione di Prodi alla vigilia delle elezioni del 2006 per avere il sostegno del padronato (per altro modesto e parziale), a cui fu data attuazione dalla maggioranza di centro sinistra attraverso la riduzione dell’IRAP: 5 miliardi di riduzione fiscale per le imprese, 2 miliardi per le banche e assicurazioni all’anno. Fate il calcolo, dal 2006 al 2013 è un regalo di 42 miliardi. Per i lavoratori furono introdotti sgravi fiscali ridicoli oltre che contraddittori.

Qual è il problema oggi? In primo luogo la fonte del risparmio (spending review, recupero evasione fiscale, rientro dei capitali dall’estero) è per ora incerta nella quantificazione; in secondo luogo le risorse recuperate avranno, secondo la legge, priorità di utilizzo, prima le spese indifferibili, tra cui il rifinanziamento della CIG in deroga che per ora è solo in parte coperta, poi le risorse per le cosiddette missioni di pace, cioè per la guerra, anche queste per ora non sufficientemente finanziate (solo 600 milioni rispetto ai 900 spesi quest’anno), poi le eventuali grandi emergenze ambientali tra cui quelle legate al dissesto idrologico, poi i fondi derivanti dall’attività di contrasto all’evasione fiscale dovranno essere considerati al netto di quelli prodotti dall’attività svolta dagli Enti locali, infine non si dovrà perdere di vista il conseguimento degli obbiettivi della finanza pubblica, cioè la riduzione del debito.

Fatte tutte queste sottrazioni le risorse disponibili saranno divise al 50% tra imprese e lavoratori; nel primo settore sono compresi anche i professionisti e le micro imprese sotto i 181 mila euro di valore della produzione; nel secondo i pensionati.

Secondo il Corriere della Sera nel 2014 andrebbero 1,1 miliardi al primo comparto sociale e 1,4 miliardi al secondo, ma il calcolo potrebbe essere del tutto azzardato. Il padronato invece vuole certezze e pretende una parte ben più consistente di risorse economiche, tanto che, alla vigilia di Natale, è comparso un accorato editoriale del Sole 24 ore dal titolo “La forza dell’industria. Rispettare l’Italia” (cioè loro stessi) in cui si scrive: “Per questo contro i ‘declinisti interessati’ vecchi e nuovi ci permettiamo di insistere che la priorità per l’Italia se vuole (davvero) rialzare la testa sono il lavoro, l’industria e la domanda interna”.

Di nuovo c’è solo questa “riscoperta” della domanda interna precipitata per effetto della contrazione dei consumi. Difficile licenziare e tagliare i salari e poi avere una domanda forte, ma questa è una delle contraddizioni del capitale.

Le parole vuote della CGIL

I padroni e i governi che li rappresentano fanno il loro mestiere: la domanda è allora: ma che cosa fanno le organizzazioni dei lavoratori, i sindacati e in particolare il più grande di essi, il sindacato storico della sinistra, la CGIL? Nulla, se non poche e vuote parole. La collusione col PD, forza fondamentale del governo, e quindi con l’esecutivo stesso è totale.

La segretaria Susanna Camusso in un intervista parla della legge di stabilità come: ”Occasione mancata, legge di continuità con il passato, priva di ogni equità che non rimette al centro il lavoro”. Elena Lattuada, sempre della segreteria della CGIL, denuncia: “una legge di Stabilità che non mette in campo misure per invertire la tendenza, una riforma sugli ammortizzatori sociali mossa solo dalla logica di taglio delle risorse, l’assoluta assenza di misure di contrasto alla crisi, non si ha contezza alcuno dello stato di profonda sofferenza in cui versa gran parte del paese. Quest’ultimo è in ginocchio e la situazione sociale diventa sempre più insostenibile: serve una svolta e serve ora”.

E ancora un terzo della segreteria, Vincenzo Scudiere: “Letta parla sempre di cose da fare, mai di cose fatte. La legge di stabilità non redistribuisce il reddito, non combatte veramente l’evasione fiscale e non mette soldi sul lavoro e sull’occupazione. Siamo alla consueta politica degli annunci che non producono affatto risultati”.

Giustissime affermazioni della segreteria della CGIL, diagnosi perfetta, ma dove sta la terapia della Confederazione? Dove sta l’iniziativa del sindacato? Dove sta una piattaforma e una mobilitazione all’altezza del disastro in cui vivono le masse lavoratrici? Quelle dei dirigenti della CGIL sono parole vuote come la propaganda di Letta.

E qui sta il dramma del movimento delle lavoratrici e dei lavoratori, che pure in questi mesi, in tante iniziative parziali, ha dato segni di volersi mobilitare e che, se pure in modo confuso, vorrebbe opporsi alle politiche dell’austerità. Come possono il sindacalismo di classe e le forze della sinistra anticapitalista intervenire e dare le risposte che mancano, tanto più quando il neosegretario del PD, Matteo Renzi, apre una nuova discussione sul lavoro e sull’articolo 18, un nuovo inequivocabile fronte di attacco per rendere il lavoro ancora più flessibile a favore degli interessi padronali? Su queste questioni che sono decisive per lo sviluppo delle lotte sociali nel 2014, interverremo con un prossimo contributo.

26 dicembre 2013

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